mercoledì 23 febbraio 2011

15 febbraio 1635: Buon Compleanno Galileo!

>
 >>
 “E parendo a noi che tu non avessi detto intieramente
la verità circa la tua intentione, giudicassimo esser
necessario venir contro di te al rigoroso esame;
nel quale, senza però pregiuditio alcuno delle cose
da te confessate e contro di te dedotte come di sopra
circa la detta tua intentione, rispondesti catolicamente”

Era notte senz’altro buia, e indubbiamente tempestosa.

Ma il buio veniva rotto dal lampeggiare delle torce e dei roghi che laceravano le tenebre usuali della valle alpina e orizzontale. E l’urgenza tempestosa non era data dai cumuli scuri che pure rimanevano indecisi sulle creste dei monti, pronti a vomitare pioggia e vento, ma dalle burrasche che agitavano gli uomini che in quella valle urlavano, inseguivano, scappavano, per salvare una vita o per reciderla. Non era notte silenziosa, quella.

Ogni cosa è un gridare, un fuggire, un dar di piglio all’armi, chi per difesa, chi per offesa, e piombare sovra i nemici, e difendentisi invano, gridanti a Dio mercé della vita e dell’anima, tra le braccia delle care donne che ponevano i bambini a pié dei sicarj per ammansarli, e tra i singulti degli innocenti figliuoli, nelle case, per le strade, sui tetti, trucidarli. […] Ben sessanta vennero in diversa foggia scannati, fra cui tre donne, e le altre ed i fanciulli perdonati se abbracciassero la cattolica fede. II Robustelli […] schioppettò un trenta persone, poi mise fuoco al paese. Falò, diceva egli, per la ricuperata libertà di religione. Che premeva a costoro? Che difendevano essi? La religione di Cristo? No, se ne falsavano il primo precetto, il supremo distintivo, amare. Era abitudine di antichi riti, era quel furore che accompagna le fazioni, era zelo iniquamente incitato da fanatici capi, che predicavano questi orrori nel nome del Dio della pace, a sostegno di una religione, che deve essere propagata con armi incolpate, colla santità degli esempj, coll’efficacia della parola e della grazia. Guai se la plebe comincia a gustare il sangue! È un ubbriaco, che più beve, più desidera il vino. [1]

Come riescono gli storici a darsi ragione del pensiero e del carattere d’un uomo? È già difficile farlo coi propri contemporanei, pure in questi tempi nostri in cui è conoscibile quasi ogni respiro dei personaggi pubblici. Ciò non di meno se, come è normale che sia, il personaggio è personaggio di parte, allora inevitabilmente anche oggi si avranno descrizioni sommamente diverse a seconda della parte dello scrivente. Il giudizio univoco non può allora non sfuggire, e forse questo non fa altro che rendere giustizia alla memoria, perché è davvero difficile che un uomo riesca ad essere contenuto in una sola etichetta. Angelo o demonio, santo o assassino, genio o idiota. La verità non è quasi mai d’un solo colore; ad esempio, è davvero difficile catalogare Nicolò Rusca.
Arciprete di Sondrio quando la cattolica Valtellina era sotto il controllo politico dei protestanti Grigioni, Nicolò Rusca venne arrestato nel 1618 e incarcerato a Thusis, dove finivano regolarmente tutti i cattolici accusati di qualche reato politico. Il processo comprendeva, a quei tempi, anche una ragguardevole dose di torture, e Rusca ne subì tante da non sopravvivere al trattamento. Di lui si rammenta una celebre frase: “Odiate l’errore, non l’errante” (secondo altre fonti, la frase suona ancora più esplicita “Odiate l’errore, amate gli erranti”), e il soprannome con il quale adesso è ricordato “pastor bonus”, cioè il “buon pastore” che morì per la salvezza del proprio gregge. Essendo morto sotto le torture del boia quando nella sua terra la religione cattolica era minoritaria, è naturale che venga ora considerato degno di beatificazione: ed infatti la prima proposta in tal senso data addirittura 8 Novembre 1927. Il percorso canonico ha subito però lunghe soste, per poi riprendere con più vigore nel 1996, quando in Sondrio si è concluso un nuovo processo diocesano in proposito.

Quando Nicolò Rusca era in vita, la regione politica nella quale viveva era la Rezia: un bel nome latino, che si rammenta insieme ad altri toponimi dell’Impero Romano e, soprattutto, che si ritrova nella dizione “Alpi Retiche”: e infatti la Rezia è tutt’ora riconoscibile nella fusione della svizzera Engadina e dell’italiana Valtellina, due valli alpine insolitamente orientate da est a ovest, “orizzontali”, in una orografia che è invece abituata a vedere le valli correre in direzione nord-sud, ma le eccezioni sono tantissime (a cominciare dalla Val d’Aosta). Le unisce la stretta Val Poschiavo e il Passo del Muretto; all’inizio del Seicento erano quasi un laboratorio politico, poiché rappresentavano una sola unità politica abitata da due diverse confessioni: maggioranza evangelica in Engadina e maggioranza cattolica nella Valtellina. Maggioranze, però: non totalità; in entrambe le valli v’erano minoranze della confessione non predominante, e l’Europa tutta – allora assai sensibile al terremoto geopolitico della Riforma – osservava con curiosità quella convivenza di fedi diverse.

La già citata morte per torture dell’arciprete di Sondrio preannuncia che tale convivenza non fu certo serena e tranquilla. Anzi, a voler dare ascolto a tutte le parti, si scopre che ancora oggi Nicolò Rusca, quasi santo per i fedeli cattolici, è visto sotto una luce ben diversa dagli occhi protestanti:

Ma con l’avanzare della Controriforma, l’odio dei cattolici valtellinesi verso la minoranza protestante, fomentata dai predicatori francescani e domenicani, inviati dall’arcivescovo di Milano cardinale San Carlo Borromeo (1538-1584), arrivò a livelli di elevata intolleranza, nonostante i richiami alla pacifica convivenza lanciati dai pastori Ulisse Martinengo e Scipione Calandrini (e proprio per questo motivo i cattolici, sobillati dall’arciprete di Sondrio Nicolò Rusca, per ben due volte, cercarono di uccidere quest’ultimo).[…] Ma questo fu niente in confronto alla rivolta dei cattolici contro i protestanti della Valtellina del 1620, che sfociò in uno spaventoso pogrom […] Il fomentatore principale fu il fanatico arciprete di Sondrio Nicolò Rusca, vero agitatore delle folle cattoliche e sprezzante delle leggi che cercavano di mantenere un pur delicato equilibrio tra le due comunità. Egli venne arrestato e processato a Thusis nel 1618 per il tentato omicidio, sopraccitato, di Scipione Calandrini, ma morì durante le torture dell’interrogatorio. [Da www.eresie.it, di Douglas Swannie.]

La morte per tortura nel carcere di Thusis sembra essere l’unico punto sul quale concordano sia la versione cattolica che quella protestante. Tolto questo, i ritratti che abbiamo di Nicolò Rusca non potrebbero essere più diversi: santo e martire per una parte, fanatico fomentatore di omicidi per l’altra. Purtroppo però ci sono altri punti nei quali le cronache coincidono, ed è nel raccontare cosa accadde nei mesi successivi alla morte del Rusca. Nel processo di Thusis per il tentato omicidio di pastori protestanti vennero condannati, oltre a Rusca, anche i fratelli Planta e Giacomo Robustelli. Quest’ultimo riuscì, due anni più tardi, a ritornare in Valtellina e ad organizzare quello che, con termini crudeli ma assai appropriati, Cesare Cantù chiamò poi il “Sacro Macello della Valtellina”.
All’avviso, i Besta corrono coi manigoldi addosso alla chiesa degli Evangelici e prima li prendono a tiri di scaglia dalle finestre, poi, atterrate le porte, a coltella li sgozzano. Diciannove rifuggirono nel campanile, e gli insorgenti, messovi fuoco, li soffocarono. D’ogni sesso, d’ogni età, fin settanta ne uccisero, fin un cattolico, Bonomo de Bonomi, perché non prendeva parte all’esecrando atto. Fin te, povera Margherita di quattordici anni, che, colla viva eloquenza d’una giovinezza innocente, opponevi il capo alle ferite dirette al sessagenario tuo padre Gaudenzio Guicciardi. […] Si figuri a cui regge l’animo l’orrore di quel giorno, quando ben cenquaranta furono trucidati, ed un Agostino Tassella, coll’insensata gioja del delitto, come di bellissima prodezza andava trionfante d’averne egli solo mandati diciotto a casa del diavolo; e un tal Cagnone si vantava pronto a trafiggere anche Cristo; e la ciurmaglia, stanca ma non satolla, facendo insane gavazze in Campello, gridava: ecco la vendetta del santo arciprete. […]Andrea Paravicini da Caspano, preso dopo molti giorni, fu messo fra due cataste di legna e minacciato del fuoco se non abjurasse: durando costante, fu arso vivo. E si videro spiriti celesti aleggiargli intorno a raccoglierne lo spirito. Né fu questo il solo prodigio, onde le due parti pretesero che il Cielo ad evidenti segni mostrasse a ciascuna il suo favore. Ignobili affetti presero il velo della religione, e coll’eterna iracondia del povero contro il ricco, contadini e servi piombarono sui loro padroni, i debitori su cui dovevano, i drudi sui cauti mariti. Molte donne, ancora e nella florida e nella cadente età andarono a fil di spada. […] Che più? Fanatici frati, sacerdoti del Dio che perdona, aizzavano la moltitudine, quasi non credessero poter essere zelanti senz’essere feroci. Battista Novaglia a Villa tre di sua mano ne scannò; frate Ignazio da Gandino venne a posta da Edolo; l’arciprete Paravicini inanimava i suoi Sondriesi a tuffarsi nella strage dei fratelli; il Piatti, curato di Teglio, attaccò il dottor Federici di Valcamonica, e fatto il segno della croce quale portava nella mano sinistra e una spada nella destra, ammazzò detto dottor Calvino con altri seguaci; il domenicano Alberto Pandolfi da Soncino, parroco delle Fusine, con uno spadone a due mani guidava il suo gregge a trucidare i fratelli di quel Cristo, che aveva detto: Non ucciderai. Il Sacro Macello e allora e poi fu lodato come santo e generoso da storici, da principi e da papi. Ma al secolo mio, al secolo che pure macchiò le mani di sangue e di che sangue, e di quanto, io non ardirò domandare se possa lodarsi quella impresa: domanderò solo se possa scusarsi. [1]

Il Sacro Macello insanguinò tutta la Valtellina nella notte tra il 18 e il 19 Luglio 1620. I fanatici cattolici cominciarono la strage a Tirano, dove andarono a prelevare i protestanti evangelici nelle loro case, e poi proseguì a Teglio, dove venne incendiata la chiesa protestante piena di fedeli. Si concluse infine a Sondrio, dove circa settanta persone riuscirono a fuggire verso l’Engadina, ma tutti gli altri caddero sterminati. Il bilancio di questa “notte di san Bartolomeo” valtellinese non è ovviamente sicuro, ma si ritiene che caddero “macellati” circa settecento protestanti.
L’episodio viene talvolta annoverato come una delle cause scatenanti la terribilissima Guerra dei Trent’Anni, anche se non è certo famoso quanto la celeberrima “defenestrazione di Praga”, che immancabilmente viene citata come episodio critico per lo scatenarsi della guerra. La cosa è in fondo comprensibile: per quanto non sia certo confrontabile sul piano umano la strage di settecento persone rispetto ad un inoffensivo volo di pochi metri da un davanzale boemo da parte di pochi emissari cattolici, è indubbio che sul piano politico la defenestrazione dei diplomatici ebbe una maggiore risonanza. Il 23 Maggio 1618, nel castello di Hradcany in Praga, alcuni aristocratici boemi sollevarono di peso due rappresentanti imperiali e uno scrivano e li gettarono dalla finestra. I nobili boemi erano molto arrabbiati perché, da protestanti, poco gradivano l’elezione al trono del Sacro Romano Impero del cattolicissimo Ferdinando II di Stiria. I tre malcapitati non si fecero troppo male (salvati da un poco elegante ma assai provvidenziale mucchio di letame), ma il significato politico del gesto fu tale da mettere a ferro e fuoco il continente. Incidentalmente, il salto dei davanzali sembra essere uno sport nazionale nella dolce capitale ceca: oltre a questa, certo la più famosa e “seconda” in ordine cronologico, di “defenestrazioni di Praga” se ne contano altre due: una nel 1419 (e qui i morti ci scapparono) che dette inizio alla Guerra Ussita, e un’altra nel 1948, quando il Ministro degli Esteri Jan Masaryk venne trovato cadavere sotto la finestra del suo Ministero.

La guerra che ne seguì fu forse la più devastante guerra della storia d’Europa, con la sola possibile eccezione delle due guerre del Novecento, secolo sanguinario per eccellenza. Dal 1618 al 1648 quasi tutta l’Europa fu ridotta a mero campo di battaglia: a differenza di quel che succedeva nei secoli precedenti – e anche a differenza di quel che accadrà nei secoli immediatamente successivi – la guerra sarà soprattutto guerra che massacrerà la popolazione civile, più ancora che gli eserciti. Oltre alle armi, saranno la fame, le carestie e la peste a tormentare il continente, soprattutto la sua parte centrale, al punto che le conseguenze sulla demografia delle nazioni colpite saranno evidentissime, e il grande incremento demografico del Cinquecento sarà rapidamente restituito alle casse della storia. Gli storici sono soliti suddividere in quattro fasi la Guerra dei Trent’Anni: Boemo-Palatino, Danese, Svedese e Francese, che quantomeno evidenziano il gran numero di paesi impegnati. Fu talmente profonda la cicatrice lasciata dalla guerra sulle nazioni coinvolte che la conclusiva Pace di Westfalia servì soprattutto a sancire l’esaurimento delle forze coinvolte. Guerra crudele e vinta con clamorosa evidenza solo dalle nazioni che riuscirono a rimanerne fuori: il dominio mercantile dei Paesi Bassi e quello politico dell’Inghilterra prendono il via dalle fumanti rovine della più sanguinaria guerra del Seicento, alla quale si guardarono bene di partecipare.

Non erano certo solo cause di libertà di confessione religiosa, in gioco, anzi: ma non di meno era quello periodo storico in cui era facilissimo morire per una parola sacra detta o non detta. I roghi bruciavano eretici da una parte e dall’altra, e non è possibile contare – neanche in maniera approssimata – quante donne e quanti uomini siano morti perché credevano in una fede diversa da quella dei loro carnefici.

Il millennio medievale viene spesso descritto dagli storici come il periodo della storia occidentale in cui l’idea di Dio permea e governa ogni aspetto della vita umana. La maniera di porsi nei confronti della natura, della vita, dell’universo, della morte, della conoscenza era sempre regolamentata dall’ideale e costante presenza immanente del Creatore. L’uscita da questo periodo (comunque così lungo e vasto che è sempre ardita semplificazione il trattarlo come un tutto unico) è caratterizzata da sconvolgimenti e rivoluzioni: culturali ed economiche, come la scoperta di nuovi mondi; intellettuali e artistiche, come i motivi del Rinascimento; ma anche etiche e religiose, come la messa in discussione della sovranità della Chiesa di Roma da parte dei riformatori religiosi. Tra la morte di Lutero e la fine della Guerra dei Trent’anni corre un secolo quasi esatto (centodue anni: Martin Lutero muore nel 1546, la guerra dei Trent’anni termina nel 1648), e sono cento anni di costante tensione storica; così forte da avere, più ancora di altri periodi, un costante impatto anche sulle vite degli individui.

La più grande gloria scientifica italiana conduce la sua vita interamente in questo sconvolgente arco di tempo. Galileo Galilei, figlio di Vincenzo e di Giulia, vede la luce a Pisa il 15 Febbraio 1564. Vivrà 78 anni intensissimi, prima di spegnersi ad Arcetri, e sarà l’artefice principale di una delle rivoluzioni sopra citate, quella che forse più ha contribuito a traghettare il mondo verso i tempi moderni. Galilei chiede al suo mondo di provare, toccare, sperimentare, anziché credere all’autorità costituita. Per quanto assediato ai tempi nostri da innumerevoli falsi profeti, il metodo scientifico è in realtà talmente assorbito dal mondo accademico moderno che non è neanche immaginabile poterne fare a meno. Un’ipotesi deve essere passata al vaglio dell’esperimento, o non diventerà mai scienza. È estremamente semplice, in fondo, ma non era affatto così ai tempi di Galileo, quando le Autorità, di qualsiasi tipo esse fossero, non avevano intenzione alcuna di sottoporsi a verifiche di nessun tipo, anzi.
È assolutamente fuori discussione l’idea di ripercorrere in queste righe la densa vita dello scienziato pisano; è però curioso rivisitare alcune delle attività che un uomo come Galileo doveva intraprendere ai suoi tempi. Ad esempio, una volta deciso di dedicarsi alla matematica e alla filosofia naturale (contravvenendo ai desideri del padre che lo avrebbe voluto medico), uno come Galileo doveva spiegare che tipo di evento fosse l’apparizione nel cielo di una nova. Però il punto fondamentale non era certo la “spiegazione”, così come la intenderemmo oggi, del fenomeno in sé, quanto la sua localizzazione: e questo non per ragioni analitiche, ma meramente filosofiche. Una nova esplose davvero nel cielo dell’Ottobre 1604, e la diatriba che subito si accese mirava solo a capire se quella nuova stella mettesse o no in discussione la cosmologia aristotelica. Nessuna variazione era possibile, secondo Aristotele, oltre il cielo della Luna, e pertanto la nova doveva essere più vicina alla Terra di quanto lo fosse il suo bianco satellite, altrimenti l’immutabilità delle sfere celesti sarebbe stata messa in discussione. Galilei non prova a contrapporre a questa opinione autorevolissima la sua retorica, ma passa semplicemente a tentare di triangolare la stella. Se questa fosse stata davvero così vicina, sospesa nel cielo in un punto non troppo distante dalle nostre teste, allora la sua parallasse avrebbe dovuto diventare facilmente evidente. Non è tanto il coraggio di opporsi all’idea consolidata aristotelica che stupisce, in un episodio come questo, quanto il coraggio – puramente intellettuale – che lo conduce a pensare che siano in qualche modo “sperimentabili” anche oggetti intangibili come quelli che popolano il cielo. È davvero rivoluzionario, come approccio, e bastano pochi esempi a dimostrarlo: quando insegna all’Università di Padova, troverà tra gli studenti proprio i medici, coloro dei quali aveva rifiutato la carriera. Ma se oggi è considerato del tutto naturale che i medici affrontino almeno un esame di fisica nel loro cursus studiorum, allora le cose erano ben diverse, se non altro perché la fisica così come la intendiamo oggi doveva ancora essere inventata proprio da Galileo. Cosa ci facevano allora i medici secenteschi a lezione da Galileo? Imparavano l’astronomia: era ritenuto doveroso per gli esperti di medicina saper redigere un oroscopo dei pazienti che avevano in cura.

È in questo Seicento contraddittorio che le misurazioni di Galileo devono lentamente trasformarsi in una “nuova scienza”, ma le difficoltà sono sempre maggiori di quanto sia possibile renderle in un veloce racconto. Difficoltà meramente scientifiche, ad esempio: un lettore contemporaneo potrebbe meravigliarsi del fatto che fosse ancora sub iudice la teoria eliocentrica copernicana anche dopo che Galileo, puntando il suo “perspicillum” (nome con il quale il pisano chiamava il cannocchiale, strumento che non fu lui ad inventare, ma a migliorare di molto e, soprattutto, a trasformare in strumento scientifico) su Venere, aveva notato che il pianeta mostrava fasi al pari della Luna (“Cynthiae figuras aemulatur mater amorum”, “la Madre degli amori – Venere – imita le forme di Cinzia – la Luna”). Non era più sostenibile il sistema geocentrico tolemaico, se al centro dell’obiettivo un pianeta campeggia mostrando “un quarto di Venere”, e di conseguenza il sistema copernicano avrebbe dovuto imporsi automaticamente. Ma non fu così, perché il sistema ticonico reggeva comunque alla prova delle fasi di Venere, ed era tale sistema il principale campione del geocentrismo nelle accademie d’Europa: quello di Tycho Brahe, sommo astronomo danese. Il suo sistema prevedeva la Terra immobile e situata al centro dell’Universo, con il Sole e la Luna che le giravano attorno. Il Sole, nella sua orbita geocentrica, trascinava con sé tutti i pianeti, che invece orbitavano attorno ad esso. Non era facile scardinare questo sistema di compromesso tra l’eliocentrismo e il geocentrismo perché gran parte degli argomenti a favore della teoria copernicana finivano dentro il sistema ticonico parzialmente eliocentrico, che in più aveva il vantaggio – per così dire – di mantenere “immobile” la Terra, dando soddisfazione a coloro che sostenevano che se la Terra fosse davvero in moto attorno a qualche cosa, dovremmo sentire un gran vento sulla faccia quando guardiamo nelle direzione del moto. Del resto, l’inerzia e il principio di relatività del moto doveva poi scoprirli sempre Galileo, quindi non erano argomenti che il nostro potesse usare “d’autorità”.

Ciò non di meno, le difficoltà principali cui dovette far fronte Galileo furono quasi sempre angustie di ordine diverso da quello scientifico. Quando il pisano oppose all’opinione comune che voleva la supernova del 1604 essere evento “terrestre” e non “celeste” perché la nova non aveva parallasse sensibilmente diversa dalle altre stelle fisse, subì gli attacchi dei filosofi, specialmente quelli dell’ateneo padovano nel quale operava. La critica principale era, come al solito, obiezione di ruolo e privilegio, non certo corroborata dai fatti: solo ai filosofi spettava indagare e parlare della struttura del mondo, e gli astronomi devono limitarsi ai meri calcoli. Quando questo atteggiamento dovesse infastidire Galileo lo si può immaginare rileggendo cosa fa dire in merito a Simplicio, il personaggio che nei suoi dialoghi ricopre il ruolo del difensore dell’aristotelismo e del sistema tolemaico:

“I filosofi si occupano sopra gli universali principalmente; trovare le definizioni ed i più comuni sintomi, lasciando poi certe sottigliezze e certi tritumi, che son poi più tosto curiosità, a i matematici.”

In questa ricerca di universali era davvero importante che la Terra rimanesse fissa e immobile e, soprattutto, centrale. I maggiori professori al Collegio Romano non erano poi così legati ad Aristotele quanto si tende a credere: ad esempio, come si è visto, erano ben disposti a lasciar cadere il sistema di Tolomeo, se quello di Tycho meglio rispondeva alle esigenze; ma la centralità della Terra non poteva essere messa in discussione. La Terra era la metafora della Chiesa stessa: le tempeste che arrivavano dai protestanti del Nord toglievano autorità al centro di potere ecclesiastico, e rivendicavano per la “periferia” liturgica gli stessi diritti e lo stesso potere della Chiesa di Roma. È difficile resistere alla tentazione di leggere nella rabbia della Chiesa contro il sistema copernicano una forma di reazione del centro dell’universo cattolico contro la periferia ribelle. Può certo essere solo una coincidenza storica, ma il primo serio confronto che Galileo ebbe con la Chiesa che gli veniva a chiedere conto del suo copernicanesimo è datato 1616. Prima dello scoppio della Guerra dei Trent’anni, prima del Sacro Macello in Valtellina, il Sant’Uffizio ammonisce Galileo Galilei, gli ricorda che la dottrina copernicana è contro le Sacre Scritture: ma il monito scritto dal cardinale Bellarmino ben precisa che lo scienziato non ha compiuto alcun atto di abiura in proposito. Ma l’abiura arriverà, diciassette anni più tardi.

Quando gli studenti di liceo incontrano per la prima volta la figura di Galileo, restano di solito affascinati dalle scoperte e dalla forza innovativa del suo pensiero. Si divertono all’idea dello scienziato che sale sulla Torre di Pisa per lasciar cadere dei pesi diversi, poco fidandosi di quanto scritto in merito duemila anni prima da un filosofo greco; lo seguono nell’osservazione del pendolo, nella descrizione del moto osservato dalla stiva d’una nave, si entusiasmano nel vedere rivoluzionare l’astronomia tramite pochi mesi d’osservazione dentro un cannocchiale. E si sentono orgogliosi e fieri nel vedere il nome di Galileo innalzato tra i grandissimi della scienza, con pochissimi altri nomi degni di essergli posti al fianco. Però, rimane sempre quella piccola delusione finale: l’abiura. “Ah, Galileo, perfetto prototipo di genio e d’eroe, non potevi proprio evitare d’abiurare? Non potevi alzare il fiero mento, evitare di pronunciare quelle parole, e affrontare a testa alta, da vero eroe dei film di Hollywood, le inevitabili conseguenze?”. L’affetto degli studenti verso il padre della fisica perde un po’ di vigore, a questo punto, quasi l’aver abiurato togliesse un po’ di verità scientifica anche alle sue idee.
Però gli studenti, e tutti noi con loro, dovrebbero sempre ricordare che cosa fosse la disobbedienza alla Chiesa nel 1633. Con l’Europa insanguinata da guerre di religione, con re e papi disposti santificare o maledire la medesima crudeltà verso il prossimo, se questa veniva a favore o contro i propri immediati interessi. Nel 1616, sotto il regno di Paolo V, il sistema copernicano viene marchiato come infame; nel 1633, sotto il regno di Urbano VIII che, con il nome secolare di Maffeo Barberini, si era mostrato ammiratore e quasi amico di Galileo, le cose dovrebbero andar meglio per il fisico pisano, e invece vanno assai peggio; e questa cosa, da sola, mostra che i tempi sono cambiati. Le modalità, gli intrighi, le false accuse e le false prove che portarono al processo contro Galileo sono troppo complesse per essere riportate qui con un minimo di efficacia narrativa. Riportiamo questa brevissima sintesi rubata ad una storia dei papi:

“…come pure la recente riabilitazione di Galilei voluta da Giovanni Paolo II non annulla l’infamia del processo che il famoso scienziato subì sotto Urbano VIII nel 1633; dopo il “rigoroso esame”, cioè dopo la tortura, egli fui costretto ad abiurare un’opera uscita con l’Imprimatur, che secondo l’accusa egli aveva estorto in modo fraudolento.” [Claudio Rendina: “I papi, storia e segreti”, Newton 1999]


E forse ciò che maggiormente stupisce sono proprio quelle due parole, “rigoroso esame” che oggi, se lette fuori da qualsiasi contesto, quasi inevitabilmente fanno pensare ad una qualche indagine profonda con carattere scientifico, e pertanto di natura, in senso lato ed ampio, galileiana. E invece erano parole che nascondevano e al tempo stesso palesavano l’avvenuta tortura dell’imputato; violenza metodica e premeditata, per ottenere la “conoscenza” meno scientifica possibile, ovvero una confessione estorta. Era un vecchio di settanta anni, quello che fronteggiò il Tribunale dell’Inquisizione nel Giugno del 1633: un vecchio scienziato che si vedeva costretto a rinnegare e a perdere tutto il lavoro della sua vita.

Un vecchio di settanta anni, torturato e avvilito, che aveva fatto della ricerca della conoscenza la ragione della sua vita, fu costretto a leggere il testo con cui rinnegava le idee che popolavano il suo libro più bello e famoso. Il maggiore intellettuale italiano dell’epoca fu costretto a dichiarare di essere in errore, di sbagliare, di aver condotto per tutta la vita idee e azioni da persona stupida e non intelligente. Sapendo certo che tutto quanto avrebbe dichiarato durante l’abiura lo avrebbe successivamente costretto all’isolamento assoluto, agli arresti domiciliari in Arcetri, alla totale scomparsa dalla scena scientifica e accademica d’Europa. Certo sapendo che il testo integrale dell’abiura sarebbe stato accuratamente letto e diffuso in tutte le piazze importanti del continente, al fine di svergognarne totalmente ogni merito intellettuale. Per la precisione, l’atto di abiura verrà letto per ordine del Sant’Uffizio a Firenze, Siena, Padova, Bologna, Napoli, Vicenza, Venezia, Conegliano, Brescia, Ferrara, Vienna, Udine, Perugia, Como, Pavia, Faenza, Milano, Crema, Cremona, Reggio Emilia, Bruxelles, Mantova, Gubbio, Pisa, Liegi, Colonia, Casale, Wilna, Novara, Piacenza. L’efficacia dell’istituto dell’abiura contro gli intellettuali ritenuti pericolosi era naturalmente commisurata solo alla grande diffusione che l’abiura stessa doveva avere al cospetto di tutti gli altri intellettuali del continente.

Forse, se il vecchio pisano avesse avuto la forza di resistere alle torture fisiche e psichiche, avrebbe davvero potuto risparmiarsi il dolore di pronunciare queste parole:

Atto di Abiura



Io Galileo, figlio di Vincenzo Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Eminentissimi e Reverendissimi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo Sant’Offizio, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo e che non si muova e che la Terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato vehementemente sospetto d’heresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il Sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova. Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d’ogni fedel Cristiano questa vehemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori et heresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, heresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d’heresia lo denonziarò a questo Sant’Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo Sant’Offizio imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani. Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.
 
E se avesse avuto la forza di farlo, avrebbe forse davvero guadagnato anche il totale rispetto dei ragazzi che inseguono gli eroi che non cedono di fronte a nessuna ingiustizia, che non arretrano di fronte a nessuna minaccia.

Ma a noi, forse perché non siamo più ragazzi, non dispiace che il grande vecchio abbia accontentato il Santo Uffizio, leggendo e pronunciando quelle frasi e abiurando le sue stesse idee. E non abbiamo bisogno neanche della bella leggenda che lo racconta colpire col piede la Terra, ancora nell’aula dell’Inquisizione, mormorando a sé stesso “E pur si muove!”. Ci basta l’idea che con l’abiura si sia guadagnato almeno altri otto anni di vita nella sua Arcetri, accudito dalla figlia. Ci auguriamo che, da uomo, sia riuscito a cogliere da quegli anni la serenità sufficiente a farlo sentire in pace con il mondo. Le sue idee sono rimaste accese e luminose molto più a lungo delle idee di coloro che lo hanno costretto al carcere, alla tortura e all’infamia: ci piacerebbe molto se, in un momento di lungimiranza nei suoi ultimi anni d’Arcetri, si fosse reso conto che questo sarebbe inevitabilmente dovuto succedere.

Tratto da : Le Scienze – Blog  


 

Nessun commento: